Il Patrimonio del Parco

Le dimensioni totali dell’area relativa ai 34 siti indicati dal decreto ministeriali istitutivo sono di 25.000 ha di cui 5% proprietà pubblica e 95% proprietà privata.

La presenza di una così grande porzione di aree di proprietà privata trova spiegazione nel fatto che la maggior parte dei siti del parco sono di carattere minerario e sono ancora di proprietà della Società Mineraria che deve ottemperare le operazioni di messa in sicurezza. Nel Marzo 2009, infatti, è stato siglato dalla Regione Toscana, dalle Province di Grosseto e Siena, dai Comuni di Gavorrano, Massa Marittima, Montieri, Scarlino, Manciano e Chiusdino, l’ARPAT (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale), Syndial – Attività Diversificate S.p.A. (la società che deve effettuare la messa in sicurezza delle aree), ENI – Divisione Gas & Power SpA (la società proprietaria delle aree) un Accordo Procedimentale e di Programma nel quale si sancisce che una volta effettuate le operazioni di messa in sicurezza le aree devono diventare di proprietà pubblica.

A seguito della elaborazione del MASTERPLAN  le dimensioni sono estese a 108.700 ha ed i siti ad 81, la proporzione pubblico – privato è rimasta invariata. Con la dizione “patrimonio” si intende il complesso delle testimonianze tecnologiche e archeologiche che con l’istituzione del Parco vengono proposte alla fruizione del pubblico. Si tratta di un insieme di strutture, edifici e impianti, di diversa epoca storica (dall’età etrusca fino all’età contemporanea), di differente funzione (mineraria, siderurgica, di servizio, residenziale, ecc.) e in uno stato di conservazione che può variare dalla condizione di rudere alla piena integrità fisica. Merito del Parco è quello di proporre ognuno di questi beni non nella sua singolarità, bensì in relazione agli altri beni con cui esso intrattiene un rapporto di stretta unità funzionale.

L’insieme di queste relazioni copre uno spazio che, per comodità di definizione, definiamo come “sito”; è solo in base all’appartenenza a un determinato “sito” (o contesto) che siamo in grado di stabilire, anche a distanza di tempo, la modalità di impiego del bene (la sua identità strumentale) e il valore storico-documentario luoghiche esso assume nei confronti della civiltà tecnologica del suo tempo. Il sito è in definitiva il luogo dove un processo, che coinvolgeva più beni, trovava la sua unità di svolgimento, la sua completezza di funzionamento.

L’individuazione dei siti è conseguenza di un criterio conoscitivo, in quanto l’identificazione del sito presuppone il riconoscimento del processo produttivo (o quanto meno di una sua fase completa) che aveva luogo negli edifici in quel sito ubicati. Ma il sito soddisfa anche una valenza operativa; esso rappresenta l’unità minima di intervento: qualunque progetto di recupero (sia esso funzionale, museale, ecc.) non potrà non investire il sito nella sua interezza per risultare compiuto, per non ledere il significato associato all’insieme di edifici e manufatti che nel sito ricadono. Un progetto che si limiti a un singolo manufatto, che prescinda dalla sua appartenenza al contesto, è per forza di cose incompleto: si possono prevedere fasi di attuazione differite (per i tempi di assegnazione delle risorse, per la decadenza progressiva dei vincoli), ma il progetto non può prescindere da una sua elaborazione unitaria e riferita a tutto il sito.

L’individuazione dei siti non è quindi soltanto un atto descrittivo, classificatorio della dotazione esistente di patrimonio; tale individuazione è propedeutica alla progettazione, è già anticipazione degli elementi significanti del futuro parco, inteso come sistema di parti, ognuna individuata perché possa contare su una propria autonomia funzionale. Il decreto istitutivo del Parco (D.M. 28 febbraio 2002) prevede 34 siti (o “aree”). Attraverso il riesame delle fonti di conoscenza prima citate e di ricognizioni dirette sui luoghi il numero dei siti identificati si è ampliato fino a 81. I siti individuati, appartenenti a fasi storiche diverse, disegnano, attraverso la trama delle loro localizzazioni, la complessa stratificazione che le successive civiltà materiali hanno impresso nel territorio, mette in luce la seguente distribuzione temporale delle attività produttive che si sono susseguite nel territorio delle Colline Metallifere:

– 5 siti di epoca etrusca e romana;

– 38 siti di epoca medievale e rinascimentale

Il Patrimonio storico e Archeologico del Parco

Il territorio è caratterizzato da emergenze di elevata rilevanza geologica naturalmente connesse anche, ma non solo, con le secolari attività estrattive che hanno creato un paesaggio minerario dove interventi della natura e interventi dell’uomo un vero laboratorio a cielo aperto. La storia dell’attività mineraria e della lavorazione dei metalli si fonde, dall’antichità ai nostri giorni, con la storia delle Colline Metallifere. Resti di antichi pozzi minerari e di aree di scorie metallurgiche si trovano ovunque nella zona, testimoni di un’attività in certi periodi quasi esclusiva. Le prime testimonianze relative all’attività mineraria si riferiscono al periodo etrusco (VII-VI secolo a.C.) con i resti del villaggio situato nei pressi del Lago dell’Accesa (territorio comunale di Massa Marittima), anche se con molta probabilità i lavori erano presenti già in età molto più antiche. Un’importantissima area di estrazione della selce, riferibile all’età eneolitica, è presente presso il geosito La Pietra (territorio comunale di Roccastrada).

Le aree di Serrabottini e di Niccioleta (comune di Massa Marittima) sono costellate di antichi pozzi dei quali possediamo impressionanti descrizioni di geologi del XIX secolo (cfr. Bernardino Lotti 1893), alcuni con sezione ellittica, altri con sezione circolare e con un’armatura in pietra. Durante il periodo medievale Massa Marittima (allora detta Massa Metallorum) assunse un’enorme importanza nel campo minerario con l’estrazione e la lavorazione di rame, piombo e argento. Costituitasi in Repubblica, o Libero Comune, promulgò verso la fine del Duecento, il famoso Codice Minerario Ordinamenta super artem fossarum rameriae et argentarie (prima stesura datata prima del 1294), una pietra miliare per lo studio del diritto minerario europeo, al contenuto normativo della legge mineraria fecero riferimento anche gli Statuti di Siena ed il Breve di Montieri.

Grazie all’argento ricavato dalle miniere di Montieri, le città di Volterra e di Siena, con alterne vicende, incrementarono le proprie ricchezze fino al XIV secolo. Successivamente le attività minerarie in questi territori caddero nel più completo abbandono. Nella seconda metà del XVI secolo Cosimo I dei Medici riattivò numerosi impianti di estrazione e lavorazione dei metalli. Dopo questa importante esperienza imprenditoriale è necessario aspettare il XIX secolo per vedere di nuovo la ripresa dei lavori minerari. Società belghe, francesi, inglesi, tedesche rimisero in attività i vecchi centri di produzione. Vennero incrementate le ricerche ed iniziò la fase delle grandi produzioni. Alla fine del secolo, nel 1899, fece la sua comparsa in Maremma la Società Montecatini, nata nel 1888 a Montecatini Val di Cecina per lo sfruttamento di un giacimento di rame. In Maremma la Montecatini si interessò all’acquisto delle miniere di rame di Fenice Capanne e di Boccheggiano.

Ma la vera fortuna di questa impresa mineraria non fu determinata dalla ricchezza dei giacimenti cupriferi, ma bensì da quelli di pirite (FeS2). Guido Donegani, giovane ingegnere livornese che nel 1910 fu nominato amministratore delegato della società, intuì che la ricchezza della Maremma erano i consistenti giacimenti di pirite dai quali era possibile produrre acido solforico (partendo dalla parte solforosa della pirite), una delle materie prime fondamentali dell’industria chimica. Infatti in questo periodo l’Italia era, per l’industria chimica, totalmente dipendente dalla Germania e lo sfruttamento di queste risorse apriva la concreta possibilità di dotare il Paese di un’industria totalmente autonoma. Nel 1910 la Montecatini acquistò una quota consistente della Unione Italiana Piriti proprietaria della più antica miniera di pirite della Maremma: quella di Gavorrano. Con la messa in esercizio, nel 1930, della Miniera di Niccioleta la Montecatini si era assicurata il monopolio delle piriti italiane: il 90% della produzione nazionale di questo minerale proveniva dalle miniere maremmane, di cui era l’esclusiva proprietaria.

Proprio a partire dagli anni ’30 il paesaggio delle Colline Metallifere subì un repentino e continuo cambiamento: nacquero interi villaggi minerari, impianti industriali con strutture sempre più ardite e sempre più invasive. Il comprensorio vide impiegate diverse migliaia di addetti e per il trasporto del materiale fu realizzata una vera e propria rete di teleferiche lungo più di 40 km (il sistema di teleferiche più lungo d’Europa) che dalle varie unità produttive faceva affluire il minerale alle stazioni ferroviarie di Scarlino e di Gavorrano per le spedizioni via terra e all’imbarco di Portiglioni, presso Scarlino, per quelle marittime (terra rossa: sito del Parco attualmente valorizzato e visitabile). Un altro capitolo delle attività estrattive maremmane è costituito dalle miniere di lignite che sono state intensamente sfruttate in particolar modo durante i due periodi bellici (Miniera di Ribolla, Casteani, Montebamboli), ma, non appena i mercati furono riaperti, il “carbone” di Maremma non riuscì a reggere la concorrenza di quelli esteri e soprattutto del petrolio.

La tristemente nota sciagura di Ribolla, uno scoppio della miniera di lignite, che uccise nel 1954, 43 persone, accelerò infine i tempi della crisi. Nella prima metà degli anni ’60 la Montecatini realizzò lo stabilimento di Scarlino, dove furono trattate le piriti grezze per produrre acido solforico, pellets di magnetite e energia elettrica. La Miniera di pirite di Gavorrano cessò la produzione nel 1982, quella di solfuri misti (rame, piombo e zinco) di Fenice Capanne nel 1985, quella di pirite di Niccioleta (Massa Marittima) nel 1992, quella di pirite di Campiano presso Boccheggiano (Montieri) nel 1994. La produzione globale di pirite, nel periodo che va dalla fine del secolo scorso al 1994, ha superato i settanta milioni di tonnellate; per i solfuri misti si può stimare una produzione intorno ai quattro milioni di tonnellate.